A cura di Lucio Fumagalli, Sergio De Angelis, Pietrina Sanna

L’Istituto Nazionale di Sociologia Rurale avvia una nuova ricerca per la realizzazione dell’Atlante dei vitigni e vini del Lazio, per confermare le proprie radici e aprirsi sempre di più alle comunità dei territori rurali italiani. Si riparte da Columella, Catone e Varrone, da Gregorio XII e da Camillo Mancini, di cui nel 1989 si è curata la ripubblicazione della Monografia: il Lazio Viticolo e Vinicolo opera pubblicata nel 1888. Troveremo più di un riferimento in questo articolo alla monografia e in allegato interessanti tabelle e immagini dell’epoca.

Il Lazio è una regione molto, forse troppo riservata, dove le numerose eccellenze sono sepolte tra colline, montagne e immensi boschi. Si dice che sia colpa o merito della presenza dominante della città eterna, che attira su di sé tutte le attenzioni e così involontariamente nasconde, forse protegge, le numerosissime ricchezze della regione. La ricchezza del patrimonio agricolo laziale non è conosciuta in Italia e in ambito internazionale in modo proporzionale al suo effettivo valore; eppure le produzioni di qualità e i primati sono numerosi tanto nella produzione quanto nella trasformazione. Spesso le sue tipicità sono importanti e con radici profonde ma anche sconosciute. Tutto questo è vero in agricoltura ma anche sotto il profilo naturalistico e paesaggistico, con riferimento a tutto il patrimonio culturale in genere, materiale e immateriale e anche ai settori industriali. Il Lazio è una regione bellissima, ricca di città e borghi custoditi da una natura rigogliosa, che li cela a sguardi superficiali, una regione ricca di montagne che rendono la popolazione severa e riservata e poco propensa alle autocelebrazioni.

Tra le eccellenze, oggi ancora poco conosciute, è il patrimonio viticolo ed enologico del Lazio e la sua Storia. A partire dalla metà dell’Ottocento fino ai primi anni del 1900, grazie all’avvento della moderna enologia, i vini laziali hanno conosciuto un grande successo, specie i bianchi viterbesi e dei castelli, purtroppo, come per molte esperienze simili di altre regioni, il successo è andato spegnendosi in termini di qualità percepita e quindi nei prezzi riconosciuti dal mercato a partire proprio dalla principale piazza di consumo italiano rappresentata da Roma. Nell’opera del Mancini[1] si trova la città di Roma come la principale e più profittevole area di consumo di vino italiana e come la principale area di collocazione del prodotto laziale, aspetto perduto specie in termini di prezzo. Il rilancio della qualità vinicola del Lazio è però evidente ma le opportunità di sviluppo, fortunatamente, sono ancora molte.

Con questo articolo anticipiamo un’opera più estesa e in fase di preparazione, l’Atlante dei vitigni e dei vini del Lazio, che l’Istituto promuove per proseguire il percorso avviato ormai tanti anni addietro con i propri famosi Atlanti dei prodotti tipici. L’Atlante speriamo possa essere l’esempio di un’opera multimediale capace di innovare nel processo di condivisione della conoscenza, tramite gli strumenti tecnologici oggi disponibili.

Molto di più che una aggiornatissima vicenda editoriale di elevata qualità scientifica, speriamo possa essere una esperienza collettiva capace di sostenersi delle comunità presenti nella regione o a lei interessate; iniziativa capace di sostenere a sua volta queste comunità e forse di attivarne di nuove. In questo anno e mezzo abbiamo visto la nostra sede a San Lorenzo popolarsi di una ricca comunità di amici, singoli sostenitori storici dell’Istituto, felici nel vedere che la sua Storia non viene dispersa, nuovi amici e spesso piccole ma ricche comunità scientifiche o di appassionati del mondo rurale e delle sue produzioni tipiche. Partiamo dal Lazio perché crediamo sia la regione vitivinicola con il rapporto più elevato tra storia, importanza e qualità delle produzioni e ridotta immagine specie commerciale. Partiamo dal Lazio perché ci sarà più facile collaborare con le comunità che ci sostengono giorno per giorno.

Da pochi giorni abbiamo inaugurato la biblioteca intitolata a Giuseppe Medici, fondatore dell’Istituto, e abbiamo incominciato a ricevere le visite di studenti e ricercatori del settore; la consultazione della famosa “Inchiesta Jacini[2] è la principale ragione delle visite, speriamo che l’interesse si estenda anche alle nuove ricerche e alle metodologie in fase di sperimentazione e si avviino collaborazioni sempre più profonde.

Introduzione

Il territorio laziale ha una superficie composita, costituita da un mosaico di aree che, pur mantenendo viva la loro identità, hanno in comune la vocazione per la viticoltura di qualità. Il territorio è prevalentemente collinare, con un gran numero di laghi di origine vulcanica ed uno sviluppo costiero di 300 chilometri. Tale mix dà luogo a molte tipologie di vino.
Il Lazio ha una superficie vitata di quasi 28.000 ettari[3], inferiore a Regioni con grandi produzioni. Un’estensione di tutto rispetto anche se, da dati più recenti non ancora ufficializzati, emerge una certa riduzione degli ettari coltivati.
Dopo l’avvento della fillossera e quindi con l’ingresso nella moderna viticoltura, nel Lazio come nel resto d’Italia, ha purtroppo prevalso spesso la tendenza alla produzione di grandi quantità di vino a discapito di una produzione d’eccellenza. Fortunatamente, come in molte altre regioni d’Italia, anche qui le cose stanno cambiando o sono ampiamente cambiate, grazie all’impegno di quei viticoltori che hanno scelto di puntare sulla qualità valorizzando da subito il potenziale dei vitigni autoctoni, un primo tratto distintivo quindi del Lazio che lo differenzia storicamente da altre regioni vitivinicole molto importanti.

Cenni storici

La seconda metà del 1800 rappresenta l’inizio della moderna agronomia: lo sviluppo dei viaggi tra i vari continenti ha facilitato lo scambio di materiale biologico, compresi gli organismi patogeni che, trovandosi in un ambiente privo di competitori naturali, hanno determinato l’avvento di vere e proprie epidemie. Si imponeva quindi la necessità di predisporre strutture tecnico-scientifiche idonee a far fronte alle problematiche connesse con le nuove patologie della vite, in particolare la fillossera e con essa oidio e peronospora, che stavano falcidiando non solo i vigneti della Regione ma anche quelli dell’intera nazione ed europei. Interessante notare che il Mancini nel capitolo V della seconda parte della sua opera, dedicato alle “Cause nemiche della viticoltura”, citi piuttosto ampiamente la peronospora con le due gravi epidemie del 1883 e 1884 che annientarono la produzione regionale, ma quasi non faccia riferimento alla fillossera. La fillossera della vite, un afide, compare in Italia nel 1879. Nel Lazio, e in particolare modo nei Castelli Romani, si diffonde in modo lento e sporadico per vari motivi: isolamento e distruzione dei vigneti infestati; disinfestazione dei terreni; costituzione fisica dei terreni (siliceo-sabbiosa o mezzana) che non favoriva la migrazione della fillossera tra le viti.
Il Lazio però da subito diventa protagonista di questa lotta, infatti nel 1891 nasce a Velletri la Regia Cantina Sperimentale, voluta da Menotti Garibaldi, figlio del celebre condottiero. In questa struttura e in quella del Consorzio Provinciale per la Viticoltura di Frascati venne istituito un vivaio con piante madri da viti americane, fondamentale per riprodurre barbatelle resistenti all’insetto e al tempo stesso insegnare ai viticoltori le tecniche di innesto per reimpiantare i vigneti. Un capitolo importante dell’Atlante sarà quindi quello storico, dedicato in particolare a conoscere gli Istituti, i centri di ricerca e sperimentazione agricola, le comunità che nella regione alimentarono il processo di sviluppo del settore vitivinicolo.
Proprio recentemente l’assessore all’agricoltura della regione Lazio, Carlo Hausmann, ha dichiarato: “Nel Lazio ci sono ben 76 vitigni sui quali da tempo gli istituti di ricerca come il Crea di Velletri, stanno portando avanti molti progetti per dare al vino del Lazio quelle caratteristiche distintive importanti quali: originalità, naturalità e forte identità”. “Però – ha aggiunto Hausmann – abbiamo bisogno di creare una grande alleanza tra le imprese. Su quest’ultimo aspetto il PSR, con i progetti europei per l’innovazione, può essere uno strumento fondamentale per la costituzione e la gestione dei Gruppi Operativi e per dare sostegno a progetti pilota orientati a nuovi prodotti, pratiche, processi e tecnologie”. [4]

Ma torniamo alla storia, nel Lazio, la diffusione della vite risale almeno agli Etruschi, che si sa per certo la coltivarono nel viterbese. Durante l’Impero Romano (soprattutto nell’epoca augustea) si assiste ad un forte incremento degli impianti e ad un vero e proprio boom del consumo di vino.
Il territorio dei Castelli Romani con i suoi colli di origine vulcanica diventa un luogo ideale per la coltivazione della vite; il vino prodotto, tuttavia, era il frutto di una rudimentale coltivazione e vinificazione con risultati prevalentemente di scarsa qualità. I Romani non bevevano vino “puro” detto merum bensì quasi sempre mescolato con acqua, spezie o miele (vino detto corretto o “condito”), reputando un’intemperanza bere vino “assoluto”, poiché era destinato soltanto per le libagioni agli Dei. Inoltre era severamente proibito alle donne berne, lo stesso divieto vigeva per i giovani fino ai 21 anni.[5] Bisognerà attendere l’Alto Medioevo perché il Lazio elabori una vitivinicoltura di pregio: nello Stato Pontificio vennero emanati diversi Trattati sull’argomento e venne dedicata particolare attenzione al vino, sia come elemento liturgico, sia come parte essenziale della mensa ma anche per il suo valore commerciale.[6]
Alla fine dell’800 i vini più noti del Lazio, Castelli Romani, Frascati, Marino ed Est! Est!! Est!!!, erano tutti ottenuti da vitigni autoctoni come la Malvasia, il Trebbiano, il Bellone (detto anche Cacchione).

Vini e Vitigni

Come detto in precedenza, la produzione di vini di qualità del Lazio sfrutta soprattutto il potenziale dei vitigni autoctoni. La produzione regionale, sia per numero che per estensione dei vigneti, è caratterizzata per lo più da vini bianchi per un buon 80%. Il più rinomato vino del Lazio è il Frascati. Guardando più nel dettaglio le coltivazioni si scopre che le zone collinari della regione danno origine a vini importanti come: il rosso Cesanese del Piglio DOCG e i bianchi Cannellino di Frascati DOCG e Frascati Superiore DOCG.
Soffermandoci sui vitigni a bacca bianca, vanno menzionati la Malvasia bianca di Candia, la Malvasia del Lazio (detta anche Malvasia nostrana o Puntinata), il Trebbiano Giallo, il Trebbiano verde ed il Trebbiano Toscano (detto anche del Lazio), ma bisogna ricordare anche la Malvasia Bianca Lunga. Le uve citate sono alla base del vino Est! Est!! Est!!! di Montefiascone DOC, una delle produzioni regionali di punta. Spostandosi verso il confine con l’Umbria ci si imbatte nel Grechetto, coltivato soprattutto nelle zone del Viterbese; gli altri vitigni a bacca bianca da ricordare sono il Bellone, il Bombino, il Moscato di Terracina e il Pecorino.
Sul versante delle uve rosse, oltre agli impiantati Montepulciano, Merlot, Ciliegiolo, Cabernet e in alcuni casi anche alla Barbera, il vitigno autoctono più importante è ritenuto il Cesanese, alla base di vini di assoluta eccellenza come il Cesanese del Piglio DOCG, il Cesanese di Olevano Romano DOC, il Cesanese d’Affile DOC e il Castelli Romani DOC (Cesanese comune). Tra le uve a bacca rossa un ruolo primario lo rivestono anche il Nero Buono, il Sangiovese, vitigno di cui il Mancini approva la allora recente introduzione e diffusione nel nord del Lazio, e il Ciliegiolo.
Oggi il Lazio presenta ventisei DOC (diventano ventisette con la DOC interregionale Orvieto), tre DOCG e sei IGT.[7]
Tra le produzioni di qualità della regione, oltre a quelle già ricordate, vanno menzionate le DOC Colli della Sabina (prodotta lungo la riva destra del Tevere, tra le province di Rieti e di Roma), Aleatico di Gradoli, Tarquinia, Aprilia, Cori, Circeo (ottenuto dalle coltivazioni che si estendono sul territorio costiero che va da Latina a Terracina) e Atina (prodotto nella valle di Comino, nel frusinate).

Le eccellenze viste al tempo e con gli occhi del Mancini

Interessante notare come il Mancini sia piuttosto severo in merito alla qualità del vino laziale dell’epoca nonostante ne affermi continuamente le grandi potenzialità. In effetti a leggere dei sistemi di vinificazione e conservazione e alle pratiche per addolcire gli importanti difetti, originali o acquisiti, adottati dai produttori e dai commercianti laziali si rimane piuttosto delusi se si era alla ricerca delle prove di una qualità quasi primigenia di questi vini. Lo spunto sembra dominare e sembrerebbe che questo sentore o fortore non dispiaccia però al consumatore medio, che anzi apprezza l’acidulo che sembra aiutare i processi digestivi.
Si ritrovano però riferimenti anche a gemme che sembrano quasi esaltare l’autore:

• il Cesanese, specie quello castellano, che regge il confronto con il pinot nero da cui si possono ottenere vini comparabili alle migliori produzioni del Bordeaux[8]
• l’Aleatico di Gradoli
• discreti anche i moscati

Inoltre, “già qualcuno si industria di fabbricare dello champagne”, non con grande successo a parere dell’autore, e “Interessante anche la produzione di vermouth che potrebbe diventare un’ottima industria per molti paesi del Lazio”.
Più volte citata la “benemerita” Regia Stazione Chimico-Agraria di Roma per i suoi studi e censimenti sui vini laziali a partire dal 1878, per le importanti indicazioni dei vitigni da selezionare, e di cui sarà utile studiare gli atti. In allegato le considerazioni dell’autore e le tabelle della Regia Stazione relative alle analisi dei vini laziali nel periodo 1878-81. [9]
Un riconoscimento di eccellenza nella coltivazione e quindi nella cura delle vigne, a partire dalle tecniche di impianto, il Mancini lo riserva in modo costante a Genzano, rinomato paese dei Castelli Romani.

Nel periodo tra 1870 e 1880, la Cantina Iacobini di Genzano vendeva i vini in varie zone d’Italia e in Svizzera, in Germania, in Inghilterra, in Argentina, nello Zanzibar e a Calcutta, Hong Kong e Shanghai. La Cantina era dotata della tinaia, della sala di elaborazione e conservazione (con centodieci botti da dieci ettolitri e sei da trecentotrenta, tutte di rovere di Borgogna), del reparto d’invecchiamento e imbottigliamento e di un laboratorio per le analisi.
La Ditta Felici Ostini di Genzano, nata nel 1876, vendeva gran parte dei vini prodotti a Roma ed esportava in vari Paesi: Olanda, Germania, Inghilterra, Danimarca, America Meridionale, India.
Il signor A. Strutt di Civita Lavinia (oggi Lanuvio), esportava con molto successo i suoi vini in Inghilterra.
Un’altra ditta da ricordare è la Cantina Santovetti di Grottaferrata, con distilleria adiacente.
Sorta nel 1833 per opera di Antonio Santovetti, la Cantina lunga trecentotrenta metri e larga sei, era dotata di trecentocinquanta botti da dieci ettolitri. La ditta operò la commercializzazione dei vini, consumati soprattutto nella zona dei Castelli Romani e a Roma, sino al 1950.
Speriamo che le cose dette abbiano generato almeno la metà dei desideri di investigazione che ci ha procurato la lettura dell’opera di Camillo Mancini così affascinante da obbligarci a valutare la ristampa in forma anastatica come fu quella del 1989, l’opera è comunque consultabile attraverso nella versione digitale.

Note Bibliografiche

[1] Nella parte quarta l’autore si diffonde sul tema dei “vini e del loro commercio” e in particolare nel capitolo secondo presenta interessanti tabelle sui consumi e prezzi del vino laziale e sull’andamento del consumo in Roma. In allegato l’intero capitolo con tabelle dell’epoca assai interessanti.

[2]  Italia: Giunta per l’inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola – Inchiesta Jacini : Atti della Giunta per la inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola.  Stefano Jacini diresse la commissione a partire dal 1877 al 1886 la commissione esaminò le condizioni dell’agricoltura nel Paese.  Il primo rapporto complessivo venne pubblicato nel 1884, 1890 si ha la pubblicazione della relazione finale. L’inchiesta rappresenta uno straordinario documento sullo stato dell’agricoltura italiana dell’epoca.

[3] Istat, Censimento popolazione e abitazioni, sezione Agricoltura, 2011. L’analisi a livello regionale mostra che le tre principali regioni vinicole italiane, in termini di superficie vitata, sono rispettivamente la Sicilia, la Puglia e il Veneto. Il Lazio ha una quota di superficie coltivata a vite che si attesta intorno alla media nazionale.

[4] Per la dichiarazione integrale https://www.regione.lazio.it

[5] Mauro Vagni, Dalla vigna alla taverna. Vite e vino dal mondo antico all’età moderna. pagg. 38-39

[6] Gabriella Nicolosi, Roma Caput Vini. CCIAA di Roma. pagg. 194-200

[7] Registro Nazionale Varietà di vite, Ministero delle Politiche Agricole e Forestali.

[8] Mancini, op. cit. pag.209 “il vitigno che dà il genio ai vini dei castelli è il cesanese, che non esitiamo a riconoscere come uno dei migliori vitigni italiani, e che osammo chiamare addirittura il nostro pinot

[9] Ibidem, pagg. 224-233. Per approfondimenti clicca qui

Bibliografia

  • Ciarla M., Citernesi C .,Vinciguerra C., Vino per hobby, vol. 1° – dal mito alla storia, Sea s.a.s., Marino (Roma), 2002.
  • De Angelis G., et al, Il vino dei Castelli Romani ieri e oggi, Enopanorama editrice, Roma, 1981.
  • De Angelis S. (a cura di), Dalle vigne ai vini, in “Crypta Ferrata”, Avverbi edizioni, Grottaferrata (Roma), 2012.
  • Nicolosi G., Roma Caput Vini. Camera di Commercio Industria Agricoltura e Artigianato di Roma, 2009.
  • Vagni M., Dalla vigna alla taverna. Vite e Vino dal mondo antico all’età moderna. Edizioni Realtà Sannita. Roma, 2009.

Sitografia