La storia

La Storia dell’Istituto Nazionale di Sociologia Rurale dalla fondazione a oggi.

Fondato il 22 luglio 1959 da Giuseppe Medici e da altre illustri personalità della scienza economico-agraria italiana, l’Istituto Nazionale di Sociologia Rurale (INSOR) nomina suo segretario generale Corrado Barberis, che ne diviene presidente dieci anni dopo. Sono gli anni della grande trasformazione del nostro Paese, da agricolo a industriale. Logico, quindi, che l’esordio consista in un volume Le migrazioni rurali in Italia (1960) e in una monografia su L’esodo rurale presentata alla conferenza nazionale del mondo rurale e dell’agricoltura svoltasi a Roma nel 1961. In essi veniva presentato il modello italiano dell’esodo tendente a lasciare sui campi le forze di lavoro socialmente più deboli: donne, anziani, meridionali.

Altri contributi dell’INSOR sono stati:
1) avere insegnato a leggere i censimenti non solo in termini di ettari ma di lire, anticipando metodologie che saranno poi fatte proprie dalla CEE;
2) avere individuato il peso economico attribuibile al fattore umano. Quanto comporta, per un’azienda, in termini di redditività, avere un imprenditore giovane o anziano, maschio o femmina, laureato o analfabeta, a pieno o a mezzo tempo;
3) avere proposto una definizione di ruralità basata sulla percentuale di superficie rimasta verde, non costruita, all’interno di ogni comune;
4) avere sezionato la composizione sociale dei consigli comunali, facendone emergere il potere di una classe di samurai burocratici diffusa in ogni partito, premessa di quella che oggi viene comunemente definita “la casta”.

Sul piano culturale, l’INSOR ha inaugurato, a partire dal 1976 con L’avvenire delle campagne europee la promozione dei prodotti tipici quale mezzo per rendere vitali anche aziende di modesto ettaraggio. Ciò grazie alla scissione dell’agricoltura in due branche distinte: la prima rivolta all’alimentazione delle masse, in cerca di calorie e di proteine a buon mercato; la seconda destinata ai piaceri della tavola. L’aforisma di Brillat-Savarin sulla piccola quantità di uomini capaci di mangiare e non soltanto di nutrirsi, si ingemma nella realtà economica di oggi. Se la concorrenza non è più stabilita con altri prodotti alimentari meno cari ma con fonti diverse di piacere, i prezzi delle derrate non pongono più un problema. I tartufi valgono ben un teatro e una bistecca chianina vale una serata danzante. In Francia i viticoltori meridionali, produttori di una sgraziata bevanda, sono stati messi in crisi tra il 1975 e il 1976 dall’arrivo del vino sfuso siciliano, ma gli dei di Château-Laffitte o di Romanée Conti hanno contemplato impassibili, dall’alto dei loro cieli, la lotta di quei villani.

Denominazione d’origine, qualità controllata, marchi di garanzia rappresentano gli atti di nascita di un’economia diversa che continua a chiamarsi agricola allo stesso titolo di un castellano che inalbera, talvolta, la civettuola etichetta di contadino. Dal vino questa economia si estenderà verosimilmente ad altri prodotti: che senso ha far pagare allo stesso prezzo il chilo di filetto affastellato in una fabbrica da carne intensiva o lentamente tessuto, erba dopo erba, da un libero animale sul pascolo alpino?”.

Nel volume Gastronomia e società, edito da Franco Angeli e presentato al Parlamentino dell’agricoltura nel novembre 1983 da tre assessori regionali (Lombardia, Toscana e Puglia) si affrontava il rapporto tra tipicità e qualità. “Affrettare la nascita dell’agricoltura gastronomica separandola dall’agricoltura alimentizia significa salvare una enorme massa di produttori innamorati del proprio mestiere. Ma l’agricoltura gastronomica si basa su due diversi tipi di derrate: i prodotti tipici e i prodotti di qualità.

Che cosa sia la qualità lo spiega ottimamente il Larousse: essa è ciò che fa che una cosa sia tale, ed è anche l’eccellenza di qualche cosa. Di qualità sarà dunque il prodotto legato ad una certa immagine di eccellenza.

Tipico è invece il prodotto che corrisponde alla memoria storica, alla coscienza popolare. Esso può pertanto coincidere, o non coincidere, con quello detto di qualità perché derivato da una materia prima assai nobile o da tecniche di particolare pregio. Di fatto, a motivo del loro alto lignaggio, i prodotti tipici finiscono per essere anche di qualità”. Nello stesso volume veniva presentata una serie di monografie di prodotti tipici.

Successivamente, in occasione della mostra delle grappe contadine organizzata a Palazzo Renzo di Bologna nel dicembre 1987, veniva pubblicato, sempre sotto il titolo di Gastronomia e società e per il medesimo editore Angeli, un volume in cui gli agricoltori venivano presentati come i garanti del prodotto di qualità: un esplicito invito a realizzare quella che oggi viene chiamata la filiera corta.

La documentazione fornita dall’Istituto Nazionale di sociologia rurale con l’Atlante dei prodotti tipici e i volumi dedicati a I salumi, I formaggi, Le conserve, Il pane, La pasta, Le erbe, Grappe Acquaviti Liquori (l’Atlante dedicato agli oli è in corso di pubblicazione) ha spinto il Ministero dell’Agricoltura a redigere l’elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali, giunto nel giugno 2009 alla sua nona revisione.

Celebrando il cinquantesimo anniversario della sua fondazione, l’INSOR ha pubblicato da Donzelli il volume Ruritalia: la rivincita delle campagne, in cui si dimostra la straordinaria vitalità del mondo rurale. La tipicità della gastronomia italiana è stata ribadita dal presidente dell’INSOR nel volume Mangitalia edito da Donzelli. Infine le ripetute ricerche condotte dall’INSOR sui censimenti agricoli dal 1970 in poi, hanno convinto lo stesso ISTAT ad affidargli la redazione del volume Capitale umano e stratificazione sociale nell’Italia agricola secondo il 6° censimento generale dell’agricoltura 2010.

Corrado Barberis, Presidente Honoris Causa dell’Istituto dal 2015